Anni Settanta, il decennio più lungo. Intervista a Miguel Gotor

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Anni di piombo. È questa la definizione che il più delle volte viene in mente quando si parla degli anni Settanta. Stragi, terrorismo, tentativi di colpi di Stato, violenza politica diffusa erano all’ordine del giorno, ma quelli, è bene ricordare, furono anche anni di modernizzazione, di conquiste sociali e politiche, e di importanti riforme, basti pensare allo Statuto dei lavoratori, alla legge sul divorzio, all’istituzione del Servizio sanitario nazionale. Un decennio che ha lasciato segni e ferite profonde, e anche dolorose, nella storia del nostro paese e che lo storico Miguel Gotor, nel suo ultimo libro, intitolato Generazione Settanta, definisce «il decennio più lungo del secolo breve». Insieme a lui abbiamo cercato di capire meglio le apparenti contraddizioni che contraddistinsero quel periodo.

Professore, partiamo dal titolo del suo libro. Perché lei definisce gli anni Settanta «il decennio più lungo del secolo breve»?

«Ho voluto usare la nota formula di Eric Hobsbawm sin dal sottotitolo per mettere in luce ancora di più una caratteristica della decade dei Settanta, vale a dire il fatto che una serie di contraddizioni e potenziali conflitti iniziarono a coagularsi a partire dalla metà degli anni Sessanta e che gli strascichi delle pratiche politiche e delle ideologie hanno travalicato la fine di quel decennio. Dal punto di vista politico ed economico gli anni Settanta sono stati fondamentali nella storia del Novecento: segnano la fine dell’ultima fiammata rivoluzionaria in Occidente in continuità con quanto avvenuto dal 1848 in poi in Italia e in Europa, e anche la crisi del cosiddetto “compromesso socialdemocratico” che aveva caratterizzato i “trent’anni gloriosi” seguiti alla fine della seconda guerra mondiale».

Gli anni Settanta vengono ricordati come gli anni del terrorismo, delle stragi e della violenza politica. In realtà a quel decennio risalgono molte delle ultime grandi riforme: lo Statuto dei lavoratori, la riforma delle pensioni, la legge sul divorzio e quella sul diritto di famiglia, l’istituzione del Servizio sanitario nazionale, l’abolizione dei manicomi, la legge sull’aborto. Non appare come una contraddizione?

«Non credo, sono due facce opposte di una stessa medaglia che il libro prova a descrivere. Gli anni Settanta non sono stati soltanto stragismo, lotta armata e violenza politica diffusa, ma anche un decennio di modernizzazione politica, civile, culturale e sociale del paese che forse non ha uguali nella storia del Novecento. Semmai bisogna chiedersi per quale ragione il decennio in cui la violenza esplode è anche quello in cui si realizzano gli interventi riformatori cui lei ha fatto giustamente riferimento ».

Da un lato, la strategia della tensione, con le stragi fasciste e i tentativi golpisti, e dall’altro il terrorismo “rosso” stringevano il paese in una morsa di piombo. Come reagì la società civile?

«Ha provato a resistere alla gragnuola di colpi subita. Per riuscirvi hanno svolto una funzione importante sia i grandi partiti di massa sia il sindacato che paradossalmente sono entrati entrambi in crisi dopo avere celebrato il loro successo più significativo, ossia la sconfitta del terrorismo». A un certo punto i gruppi terroristici, e in particolare le Brigate rosse, sembravano invincibili: quanto era esteso effettivamente il consenso nei loro confronti? «È stato un consenso presente ma limitato che è difficile quantificare dovendo distinguere tra militanti disposti a uccidere e a essere uccisi e un’area di simpatia diffusa. Stiamo comunque parlando di minoranze armate che quando lo Stato ha deciso di combatterle in modo serio, vale a dire dopo la morte di Aldo Moro, sono state sconfitte in un tempo ragionevolmente breve grazie alle pratiche dell’infiltrazione, del pentitismo e di un maggiore coordinamento in seno alla magistratura».

Colpire il cuore dello Stato era lo slogan delle Br, e in effetti arrivarono a colpirlo con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro: ma quell’evento non segnò l’inizio della loro fine?

«No, è un luogo comune che riproduce lo sguardo e l’interpretazione di alcuni settori minoritari dell’opinione pubblica italiana che hanno confuso i loro desideri con la realtà. I dati ci dicono altro: l’offensiva della lotta armata in Italia raggiunge il suo apice tra il 1979 e il 1980 e il fenomeno inizia a ridursi soltanto tra la seconda metà del 1981 e il 1982. Sotto questo profilo l’operazione Moro si rivelò un successo per le Brigate rosse che conquistarono mediante di essa l’egemonia all’interno del cosiddetto “partito armato”».

Qual è stato il ruolo del sindacato e del movimento operaio nella battaglia contro il terrorismo?

«Importante, soprattutto da quando i dirigenti compresero che dovevano isolare e combattere proprio all’interno del sindacato le infiltrazioni brigatiste e le simpatie più o meno indirette che esse godevano nelle organizzazioni. È stato un percorso lungo e difficile che ha consentito al sindacato di svolgere una decisiva funzione di argine democratico contro il terrorismo».

Lei sostiene che la strategia della tensione e il terrorismo rosso, per ragioni opposte ma convergenti, operarono per il raggiungimento dello stesso obiettivo. Ci può spiegare che cosa intende?

«Penso che la strategia della tensione sia stata una forma di guerra a bassa intensità che ha caratterizzato la guerra fredda in Italia e non solo. Essa non ha riguardato soltanto lo stragismo nero ma anche il terrorismo rosso e ha visto nell’eliminazione chirurgica di Aldo Moro il suo punto più alto e raffinato».

A distanza di quarant’anni, il paese ha davvero fatto i conti con quel periodo?

«Soltanto parzialmente. Come dopo la fine del fascismo sono prevalsi le amnesie, l’omertà e i trasformismi. Per questo credo che serva la ricerca storica».

(L’intervista è stata pubblicata nel numero di novembre 2022 di LiberEtà)

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